Aldo Agroppi, una vita da mediano. Racconto tratto da I RAGAZZI DI VIA GAETA Amarcord Piombino volume 1, di G. Lupi, foto R. Marchionni

Aldo Agroppi, una vita da mediano

Aldo Agroppi è il simbolo del centrocampista infaticabile, di chi fa una vita da mediano per dirla con il Liga, francobollatore del miglior regista avversario, addetto al massacro sistematico del Rivera e Mazzola di turno, che ti si attacca alle costole e non ti fa respirare per novanta minuti. Nasce a Piombino nel 1944, sotto le bombe non ancora intelligenti che cadono in via Pisa, la sua prima squadra è il Torino ma resta per sempre nel suo cuore, pure se lo mandano a farsi le ossa in serie B con Genoa, Ternana e Potenza. La stoffa non manca, il Torino se ne rende conto e lo richiama all’ovile per lanciarlo in serie A, il 15 ottobre 1967, in una partita con la Sampdoria che nessuno ricorda perché proprio quella sera, a soli ventiquattro anni, muore Gigi Meroni, mentre attraversa Corso Re Umberto, investito da un’auto in corsa. Fabrizio Poletti è accanto a lui ma non può fare altro che restare tragico spettatore d’una morte assurda. Ventimila persone affollano il funerale d’un campione immortale, persino i carcerati mandano fiori, soltanto la chiesa non comprende e parla di peccatore, di scandalo, assurdità terribili, ché il solo scandalo sono loro. Agroppi diventa una bandiera del Torino, squadra che segna la sua vita, ma nel 1972 non vince lo scudetto per colpa di Marcello Lippi che tira fuori un goal validissimo dalla rete della sua Sampdoria. L’arbitro non vede,

Agroppi non gliela perdonerà mai, il rapporto litigioso con il futuro mister della nazionale può avere inizio. L’ultima squadra dove gioca è il simpatico Perugia di gente folle come l’anarchico Paolo Sollier, una squadra neopromossa che Agroppi porta alla salvezza nel 1975, come capitano e nuova bandiera, ma solo per due stagioni. Possiedo ancora la foto di Agroppi con la maglia azzurra della nazionale. Un giorno, non ricordo come, mi trovo a giocare all’angolo tra via Gaeta e corso Italia, dove sua madre manda avanti una trattoria dove si spende poco e si mangia bene. Lui mi chiama e mi regala la foto del suo debutto, 17 giugno del 1972, a Bucarest. Italia – Romania 3 a 3. Agroppi gioca solo cinque partite in nazionale, ma io quella foto con la firma a pennarello nero del mediano più roccioso della serie A la conservo ancora. È il sogno del successo di un ragazzo partito da Piombino per conquistare il mondo, un mondo che sembra dorato per un ragazzino di dodici anni che vive nella provincia toscana, ma non è proprio così. Successo e sacrificio vanno di pari passo nel mondo del calcio. Pure quel bambino lo capirà. Agroppi chiude abbastanza presto con il calcio attivo e comincia a fare l’allenatore, prima con le giovanili del Perugia, poi con il Pescara, ma il sogno si avvera nel 1981 – 82 quando guida al successo il Pisa costruito da un personaggio incredibile come Romeo Anconetani. Agroppi discute molto con il vulcanico presidente pisano, ma riesce a convivere con il suo egocentrismo e con le pubbliche sparate. Ironia della sorte, il Pisa deve proprio a un livornese la sua prima partecipazione al massimo campionato. In quel periodo vedo molte partite del Pisa di Agroppi, ché sono all’Università per studiare, e provo un moto di orgoglio quando dico a tutti che il mister dei nerazzurri è piombinese. Padova è un triste passaggio della sua carriera da allenatore, ché dopo tre mesi molla tutto, non si sa perché, ma la crisi nella vita di un uomo è sempre in agguato, non siamo robot, per fortuna. Torna al Perugia, un altro amore calcistico dopo il magico Toro, e disputa un grande campionato 1984 – 85 alla guida di una squadra che perde soltanto una partita, si piazza quarta in classifica e corre per la promozione fino all’ultima giornata. La panchina della sua vita arriva nel 1985 con la Fiorentina di Giancarlo Antognoni, che disputa un grande campionato e giunge quarta in serie A, pure se non mancano i motivi di lite con certe primedonne che Agroppi non sopporta. Comincia un nuovo periodo nero con una squalifica per omessa denuncia nel 1986, episodio non chiaro di una partita del campionato precedente. La carriera di allenatore declina dopo i fasti iniziali. Esonerato dal Como, retrocesso alla guida di un Ascoli troppo debole (Sono nato a Piombino, mica a Nazaret, non faccio i miracoli, dice durante un’intervista televisiva), due stagioni fermo e un ritorno disastroso alla Fiorentina (1992 – 93) che porta alla retrocessione in serie B. Agroppi me lo ricordo anche nei panni del trasgressivo opinionista televisivo, ché i suoi commenti sul calcio rompono con quel modo cattedratico e saccente che molti sfoggiano parlando di una cosa tanto semplice. Agroppi inventa uno stile, fatto di coloriti siparietti quasi comici mentre commenta le partite, infastidisce troppi permalosi, ma non tiene la lingua a freno e il battibecco è frequente. Scoglio è professore, io non sono manco bidello, dice una volta in televisione riferendosi all’allenatore filosofo che non rientra nelle sue simpatie. Polemiche anti juventine a non finire, come suo stile da vecchia bandiera del Toro, litigi con Lippi per la conduzione della nazionale, sono piccoli esempi di un lavoro da commentatore senza peli sulla lingua. Non abbandona mai la sua Piombino, dove vive ancora, a Salivoli, frequentando Corso Italia, il Bar Cristallo, giocando a carte al Circolino e sulle panchine dello Stadio Magona. A tempo perso continua a commentare il calcio dal divano della sua villa di Salivoli, scrive per qualche giornale, pubblica libri di ricordi, si fa sentire alla radio. Non è cambiato molto. È sempre il solito Agroppi battagliero che non si fa problemi nel dire quel che pensa, il mio idolo da ragazzino, un esempio incrollabile per la mia vita da mediano.