Fonte: Quotidiano Sociale, L’INTERVISTA Il cinema rovente di Umberto Lenzi di D. Magnisi, G. Lupi, M. Mancini/Ed. il Foglio

Diplomatosi al centro sperimentale di Cinematografia nel 1956 con un cortometraggio-saggio intitolato I ragazzi di Trastevere, Umberto Lenzi è stato un cineasta prolifico, appassionato e trasversale, capace di attraversale diversi generi con estrema vitalità. Il cinema rovente di Umberto Lenzi, scritto a sei mani da Davide Magnisi, Giordano Lupi e Matteo Mancini, è un’opera corposa che affronta con la giusta distanza critica l’opera del cineasta toscano. Uno studio approfondito che scandaglia una filmografia complessa e variegata. Particolarmente interessante la sezione dedicata ai saggi critici e alle interviste. Impreziosisce il volume una ricca selezione di fotografie che ripercorrono la carriera e le esperienze di Umberto Lenzi. Abbiamo intervistato, per saperne di più, uno degli autori, Davide Magnisi.

La primissima considerazione che mi è venuta in mente sfogliando il libro dedicato a Umberto Lenzi, è che forse un po’ troppo spesso abbiamo sentito (o letto) la definizione “regista di genere” utilizzata con una sfumatura leggermente snobistica, quasi a voler sottolineare la differenza tra autori e registi, come in una sorta di classifica: cinema di serie A e cinema di serie B. Per coerenza intellettuale, invece per certi autori si è apprezzata la loro versatilità e capacità di districarsi tra generi diversi. Allora, che regista è stato Umberto Lenzi? Per me, un cineasta che amato molto il cinema.

Sicuramente Umberto Lenzi è stato un uomo che ha amato il cinema visceralmente, lo si capisce dalla sua bulimia nel dirigere, dalla sua passione per la vita sul set, anche nelle condizioni più difficili.  In passato c’è stata, certo, questa distinzione fra registi di serie A e serie B, se non addirittura C, D, fino alla Z. La serie A ai tempi di Lenzi erano nomi come Federico Fellini, Luchino Visconti, Michelangelo Antonioni, Pier Paolo Pasolini e chiunque può andare indietro con la memoria a quella grandissima stagione del cinema italiano, piena di ingegno, sorprendenti creazioni visive e anche impegno, perché a questi nomi possiamo aggiungere quelli di Francesco Rosi o Elio Petri. Ma, tutti i nomi citati, sono di registi i cui film incassavano poco e a reggere veramente la baracca della struttura produttiva del nostro cinema erano proprio i cosiddetti registi di serie B, molto spesso disprezzati da quelli di Serie A, ma i cui produttori e distributori quasi sempre potevano permettersi la serie A solo grazie a questi misconosciuti “mestieranti”, di cui Umberto Lenzi è sicuramente stato uno dei più grandi. Questa distinzione è molto tipicamente italiana; all’estero potremmo annoverare come registi di genere John Ford o Alfred Hitchcock e di Stanley Kubrick si è sempre ammirata la grandissima capacità di districarsi fra generi diversi. Certo, parliamo di registi geniali e che avevano ingenti mezzi finanziari, quindi anche la possibilità di scritturare attori, penso soprattutto (e mi limito) a quelli, non paragonabili a quelli messi in scena da Umberto Lenzi, cui potremmo aggiungere altri nomi come Fernando di Leo, Mario Bava o Ruggero Deodato, registi in grado di sfangarla in ogni situazione e di muoversi davvero nei generi più diversi. Tra quelli frequentati da Lenzi a suo tempo, potremmo annoverare il cappa e spada, il peplum, il western, il film di guerra, il giallo (di cui inventò una sua variante erotica), il poliziottesco, l’orrore e il cannibalico, che lui stesso ha fondato. Poi, certo, va anche distinta la diversa qualità dei film di queste filmografie un tempo considerate di serie B, all’interno delle quali ci sono delle vere e proprie perle che, non a caso, hanno poi ispirato, negli anni successivi, registi che hanno avuto un forte impatto innovativo all’interno del cinema contemporaneo: uno su tutti, ovviamente, Quentin Tarantino.

Leggere la filmografia di Lenzi suscita un certo stupore (e sincera ammirazione), oltre sessanta regie cinematografiche in poco più di trent’anni: una prolificità d’altri tempi, da far impallidire il grande Woody Allen. È vero che negli anni ’60, ’70 e ’80 le sale cinematografiche erano più frequentate rispetto a oggi, ma per mantenere quella costanza, oltre al fiuto, bisogna avere le idee molto chiare e una grande dedizione (e organizzazione) al lavoro. Tra l’altro, si girava e montava ancora in pellicola.

Sì, è vero, è impressionante guardare la quantità di film che si riusciva a fare in un solo anno. Umberto Lenzi era impressionante da questo punto di vista: riusciva a girare anche tre o quattro film all’anno, sbalorditivo pensando alle asfittiche filmografie dei registi di oggi. Certo produttivamente erano tempi incomparabili: il cinema in sala era ancora un grande rito collettivo fino agli anni ‘60 e parte degli anni ‘70. Intorno ad alcuni film di Lenzi si creò un vero e proprio evento, la gente affollava le sale, ci voleva la polizia per riuscire a respingere le persone che volevano entrare: mi riferisco soprattutto quando a Napoli uscì Napoli violenta nel 1976; episodi simili si ebbero a Roma con Roma a mano armata. Lenzi ebbe l’idea di ambientare questi suoi film nelle città con una forza caratteristica molto particolare riguardo quei luoghi. Anche la musica veniva calibrata sulla città in cui si andava girare; in questo senso, il lavoro di musicisti come Franco Micalizzi per le colonne sonore era incredibile, ci sarebbe da aprire tutta una parentesi su quanto quelle musiche siano rimaste nell’immaginario collettivo e, ancora una volta, cito Tarantino, visto che lui spesso le riutilizza nei suoi film.

Da storico e divulgatore del cinema mi concedo una curiosità personale, quanto è stato difficile reperire tutti i film di Lenzi (ripeto non pochi) per poterli revisionare e analizzarli con la giusta distanza critica? Dato che in Italia non siamo sempre bravi nella conservazione del nostro patrimonio artistico, cinema compreso.

In questo caso la tecnologia aiuta moltissimo: tra piattaforme, dvd, internet, amici collezionisti, siamo riusciti a reperire e a vedere, in un modo o nell’altro, tutti i suoi film. Certo non tutte le pellicole erano ben conservate nella stessa maniera, però questo tipo di lavoro un tempo sarebbe stato complicatissimo. Dove non arriva la gestione pubblica del patrimonio conservativo c’è l’aspetto degli ammiratori, degli appassionati, in questo caso di Lenzi.

Nel libro c’è una gustosa sezione dedicata ad alcune interviste rivolte a personalità diverse, non tutte legate al mondo del cinema. Ulteriore conferma della trasversalità di Lenzi e, permettimi, di distanza dall’industria cinematografica italiana attuale (che ha “abbandonato” il cinema più “avventuroso”). Ne esce fuori un piccolo spaccato dell’Italia che fu, oltre che dell’autore di cinema.

Della sezione di interviste del libro vado particolarmente fiero. Ho sempre pensato che sia compito della critica cinematografica ascoltare i protagonisti del mondo del cinema: quello che possiamo scrivere noi critici cinematografici lascerà il tempo che trova, nuove analisi si adatteranno meglio ai diversi contesti storici, invece la voce dei protagonisti, quella, rimarrà per sempre. Ho intervistato attori che hanno caratterizzato gli inizi della carriera di Umberto Lenzi, come Wandisa Guida, oggi quasi totalmente dimenticata, ma un tempo regina del cinema peplum, poi Lisa Gastoni e altre protagoniste delle successive pellicole, quelle oggi più rivalutate: Erika Blanc (Così dolce… così perversa), Laura Belli (Milano odia: la polizia non può sparareDa Corleone a Brooklyn), Martine Brochard (Gatti rossi in un labirinto di vetro), Maria Rosaria Omaggio (Roma a mano armataIncubo sulla città contaminata). Nel libro, però, non c’è solo la voce degli attori: il cinema è anche tecnica e per questo ci tenevo a intervistare un direttore della fotografia molto caro a Lenzi come Nino Celeste, il montatore per eccellenza dei suoi film, Eugenio Alabiso, o il grande maestro Franco Micalizzi, autore di moltissime sue colonne sonore, ma anche un regista come Sergio Martino, che a un certo punto è stato uno dei più grandi protagonisti di quella stagione cinematografica, e anche fratello del produttore Luciano Martino, motore di tante opere “di genere”, quelle di Lenzi comprese. E poi Dario Argento, sceneggiatore di uno dei suoi film bellici, La legione dei dannati, prima di diventare, a sua volta, da regista, ispiratore di alcuni gialli lenziani. Ma l’influenza di Lenzi è andata al di là del puro cinema, per questo mi è piaciuto molto intervistare anche uno scrittore di gialli, oltre che magistrato, come Giancarlo De Cataldo, che ha sempre annoverato Umberto Lenzi tra i suoi ispiratori. Infine, un capitolo importante è l’influenza di Lenzi oltreoceano, testimoniata da due cineasti americani che hanno sempre dichiarato il loro debito nei suoi confronti: il montatore premio Oscar Bob Murawski e il regista Eli Roth, che ha sempre venerato Lenzi come un maestro, in particolare per il genere cannibalico.

Poi è vero quello che dici tu e mi fa molto piacere che si colga: nel ricostruire la carriera di Lenzi, si dipana davanti agli occhi una piccola grande storia del Paese; non solo l’evolvere dei gusti cinematografici del pubblico e il lavorio di tutto quello che sta dietro la macchina cinema e che a noi arriva nelle vesti di un film, ma, soprattutto parlando dei poliziotteschi, un importate spaccato delle vicende che hanno investito l’Italia: una criminalità comune e organizzata sempre più efferate, la violenza che ha dilagato nelle nostre città, anche poi negli anni di piombo. Un effetto della forza realistica di quei film, bistrattati dalla critica dell’epoca, ma che oggi si rivelano come importanti testimonianze di un’epoca, con un’immediatezza veramente sorprendente. 

Dopo il ritiro dal mondo del cinema, Umberto Lenzi si è dedicato alla narrativa (ben dieci pubblicazioni), anticipando la recente tendenza di alcuni suoi illustri colleghi. Fino all’ultimo è stato animato da una grande vivacità intellettuale e dal desiderio di raccontarci storie.

Era un’inesauribile fonte di storie da raccontare. Era questo che lo ha sempre contraddistinto, che lo ha sempre caratterizzato.

Guido Gentile

Guido Gentile, docente, giornalista e critico cinematografico iscritto al Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani (SNCCI). È ideatore e conduttore di trasmissioni radiofoniche e televisive.  Ha scritto per numerose testate giornalistiche e cura rassegne cinematografiche e gli incontri culturali denominati Conversazioni di cinema.

Autore: Davide Magnisi, Gordiano Lupi, Matteo Mancini

Editore: Ass. Culturale Il Foglio

Collana: Cinema

Anno edizione: 2021

In commercio dal: 10 luglio 2021

Pagine: 610 p., Brossura

EAN: 9788876068577