Ass. Culturale Il Foglio, 2021 – La cosa che più di tutte funziona in questo libro sono i focus differenti attraverso i quali il materiale cinematografico di Lenzi viene inquadrato e rinquadrato.
Il decennio cinematografico Settanta-Ottanta è stato il decennio dei flani roboanti e della censura. Attratto dai primi e, per ragioni anagrafiche, penalizzato dalla seconda, recuperavo le perle del cinema-bis in un’infima sala di terza visione, incline a sorvolare sui divieti ai minori di 14 o 18 anni. Che il dio delle libertà e del cinema popolare possa rendere merito a quei gestori. “Maestri” del cinema popolare come Fulci, Di Leo, Deodato, Margheriti mi divennero popolari, e con essi le sfumature del buio di cui erano capaci i loro film: dai cuori di tenebra criminale alle tinte nero-horror, portatrici di una salutare a-moralità mancante al manicheismo “di genere” americano. Dopo quello di Lucio Fulci, lo specifico arroventato (tra qualche riga giustificherò l’aggettivo) di Umberto Lenzi è quello che più è riuscito a inchiodarmi alle seggiole del suddetto cinemino (e pensare che si trattava di seggiole di scomodità inenarrabile). La sequenza “del trapano” di La banda del gobbo mi era e mi è tutt’ora insostenibile. E anche se a prima vista esibivo l’aplomb da pre-adolescente scafato a tutte le evenienze, di fronte a certe scene di Cannibal Ferox, confesso che qualche popcorn mi è, come dire, andato di traverso.
Tra i precursori e gli epigoni del cinema “di cassetta” italiani, Umberto Lenzi è stato, con Fulci, il più trasversale e irredento, in grado di attraversare i generi con uno sguardo attento alle attese (spettacolari) degli spettatori. Spesso e volentieri a partire dalla prima sequenza. Si trattasse di thriller, poliziotteschi, western, horror, cannibalici, film di guerra, e di quant’altro ancora. Date una scorsa al poderoso Il cinema rovente di Umberto Lenzi, firmato a sei mani da Davide Magnisi, Gordiano Lupi e Matteo Mancini per le Edizioni Il Foglio (2021), e fatemi sapere se esagero. Il cineasta affiorante dalle oltre seicento pagine (di grande formato) del volume si connota tra le espressioni più rappresentative di un’epoca cinematografica irripetibile. Gli anni e i giorni della fantasia al potere non solo negli slogan intonati nelle piazze ma anche negli story board di registi nostrani capaci con poco o niente e tanta inventiva di colpire basso alla pancia del pubblico. Cult dopo cult.
Quelli di Umberto Lenzi, dal cappa e spada degli esordi ai thriller e i polizioeschi che sono leggenda del cinema-bis, si citano a memoria: Zorro contro Maciste, Sandokan, la tigre di Mompracem, Così dolce…così perversa, Spasmo, Milano odia: la polizia non può sparare, Gatti rossi in un labirinto di vetro, Il cinico, l’infame, il violento, Roma a mano armata, Mangiati vivi, Cannibal Ferox…
La cosa che più di tutte funziona in questo libro sono i focus differenti attraverso i quali il materiale cinematografico di Lenzi viene inquadrato e rinquadrato. C’è la storia biografica e la storia dei film. Ci sono i credits di tutti i suoi film. C’è la critica, quasi sempre feroce e quasi sempre smentita dalla Storia (oltre ai successi di botteghino, si sa che Lenzi è stato sdoganato niente meno che da Quentin Tarantino). Ci sono le analisi storiche e le analisi tecniche, pellicola dopo pellicola. Ci sono le voci (tantissime voci) di chi Lenzi lo conobbe da vicino (il fratello, le attrici, i collaboratori di un tempo Dario Argento e Sergio Martino). C’è un corredo di foto di scena, fuori e dentro il set (oltre 90 pagine, dalla foto d’antan con Vasco Pratolini a quella con Eli Roth alla Festa del cinema di Roma del 2013).
Magnisi, Lupi e Mancini insomma non si risparmiano, buttando via nulla della vita e le opere di Lenzi, straordinario attraversatore di generi. Ne discende che niente c’è da buttare di questo libro che lo celebra senza piaggeria, ma con il rispetto dovuto a un autore capace di cimentarsi, fuori dal set, con la scrittura di romanzi noir. Le parole che forse meglio ne riassumono il talento visivo e narrativo, sono proprio quelle del regista americano Eli Roth, rintracciabili alle pagine 457 e 458 del volume:
“Il primo film di Lenzi che ho visto è stato […] Cannibal Ferox, che uscì negli USA con il titolo Make Them Die Floowly. Questo titolo fece una certa impressione su di me tredicenne e il film elargiva ogni goccia di macabro e raccapricciante che il titolo prometteva. Mi ci sono voluti anni per comprendere il sottogenere del cannibalico italiano, da cui rimasi affascinato. Con lo sguardo di un ragazzino, in America, per me questi film avevano la migliore qualità di tutti, perché sembravano assolutamente reali…”.