2 febbraio 1989. Morte e terrore emersero dal mare appena increspato e tiepido di un insolito inverno che sembrava maggio. Le fauci di uno squalo si presero la vita di un sub di 47 anni, Luciano Costanzo, e fecero precipitare Piombino, l’Arcipelago e mezza costa toscana in un film dove tutti erano attori e spettatori. La realtà aveva sorpassato fantasie ardite e timori ancestrali.
E purtroppo non era che l’inizio di una storia assurda: la straordinarietà degli accadimenti veniva presa a pretesto per metterli pesantemente in dubbio, per costruire una narrazione tossica, devastante, umiliante. In quello scenario, infatti, c’erano altri uomini ben più feroci dello squalo che cercavano di ucciderlo una seconda volta attribuendogli una fuga per incassare una polizza sulla vita peraltro inesistente. Oppure una battuta di pesca con gli esplosivi finita in malo modo. Questa, dunque, è anche la tragedia di un giornalismo sciatto e in malafede al servizio della menzogna sconfitto da quello più genuino e di qualità pronto a battersi perché un uomo già morto nel modo peggiore non fosse ucciso anche una seconda volta. E con lui anche un po’ del nostro vivere civile.