prefazione di Olmo Losca, introduzione di Cristina de Vita, progetto grafico Jessica Maccario.
Prefazione di Cristina de Vita progetto grafico Jessica Maccario
Simone Cumbo è un poeta. Sembra così ovvia, palese e lapalissiana questa affermazione; ma non lo è. La poesia è un concetto astratto ancor prima che concreto. Nei poeti e nelle poete vige l’assoluta dimensione dell’incanto; o della sofferenza. E se è pur vero che gli individui che scrivono poesia sono persone come le altre, è altrettanto vero che vedono sempre da angolazioni diverse, cosa assai rara. Angoli a volte disturbanti, bui, di ancestrali crepuscoli, destrutturanti, passionali; in una passione totale del verso, fino a comprimerlo e farsi ferire da esso. In tutto questo divenire vi è il concetto stesso di poesia. La concretezza giunge solo dopo.
Il poeta Cumbo, inchiodato in cieli irreali, stor-disce il vento. Un vento che non arriva mai, un vento continuamente aspettato, sognato ma recluso, un vento che accarezza la struttura alterna dell’Io. Simone Cumbo prova, incessantemente, di afferrarlo, in una continua ricerca del verso, della terzina stridente, della prosa che sfugge. Ecco perché considero Cumbo un poeta sociale. Ma il suo essere sociale è ricamato dall’amore. Nei suoi versi, brevi e scarni, si intuisce la potenza dirompente della malinconia. Una malinconia a volte feroce, altre volte, malessere esistenziale. Il suo poetare ama l’amore: lo cerca sempre, in ogni anfratto di rima, in ogni dimensione dell’universo del foglio. Come un esploratore che si perde nei sentieri impervi di nuove terre, così lui segue l’ignoto dell’amore. E cade, e scivola, e si frattura l’intimo, si ferisce il cuore; ne esce sconfitto, trafitto, sollevato e precipitato. La poesia sociale di Cumbo è una battaglia, dove la consapevolezza di perdere è assoluto presente. Sembra quasi che voglia fermarsi appena in tempo, poiché conosce l’abisso, il profondo pozzo che l’amore può riempire con attese, fugaci baci, trasparenze immateriali di corpi sudati; ma sempre sfuggenti. La brevità delle sue terzine, quasi a guardare con ardore e avidità, la poesia haiku, ne determina l’assunto di un timore che in lui alberga quando pensa al conflitto amoroso della vita. Simone Cumbo non ama semplicemente, è devastato dall’amore; dai suoi chiodi che bucano anche il le-gno più resistente, dalle burrasche che lo spingono contro gli scogli del pensiero. E in Cumbo è un affogare continuo.
Leggiamo alcuni versi:
L’aria fredda.
Anziani a braccetto.
Il loden,
le giacche di velluto.
Un caffè caldo.
La puntina del giradischi
che suona Rino Gaetano.
Libri dispersi
sul plaid nel divano.
Manchi tu.
Tu che non sei,
tu che non sai.
In questa poesia, dal titolo “Vintage”, l’ultima terzina è la carta d’identità di questo poeta. Una terzina malinconica ma dirompente: tu che non sai…
Come a voler dimostrare l’assoluta perdita del convincimento, del non spiegare, del non voler spiegare ma nello stesso tempo un alito di spe-ranza, di richiesta di aiuto; che non arriva mai. In questa dimensione di continuo dolore, che va e torna, Cumbo precipita. E da semplice scrittore di versi si trasforma in poeta esistenzialista; dove l’esistenzialismo è un mare di sabbie mobili che trascinano senza possibilità di salvezza. In tutto questo il poeta riconosce la sua fragilità, la sua sconfitta: vorrebbe amare con tutto se stesso, ma ha consapevolezza della distanza tra gioia e dramma. In cui il dramma pervade i suoi versi.
Leggiamo ancora:
Mi ergo
tra le macerie del mio cuore,
trafitto da fuochi
che traversano il mio corpo.
Di terra
e cielo
la mia anima.
Immerso nel dolce tepore del nulla,
chiamo il vento.
E volo.
In questi brevi versi, denominati “Macerie”, si sente tutto la battaglia di cui parlavo; e l’eterna speranza di un’effimera vittoria di Pirro; come mi-raggio di un’oasi lontana: E volo… In un susseguirsi, quasi tremante, di slanci amorosi e di sconfitte, Cumbo esprime una poesia di altri tempi. Non è poeta dell’oggi, nonostante contribuisca indubbiamente al sociale della poesia contemporanea, del presente, della violenza, dell’oppressione, della tortura di questo sistema alienante che è il capitalismo. In lui vi è l’antico. Un poetare che è ormai quasi scomparso. Si nota fortemente il suo ardore, la sua passione infinita per Majakovskij, il genio della poesia russa dei primi del 900. Tra i suoi versi sembra quasi che lo voglia far rivivere. Non è un caso che il grande poeta rivoluzionario russo si sparò al cuore anche (oltre a motivi politici) per amore della giovanis-sima Veronica Polonskaja. Un amore immenso e impossibile. Simone Cumbo è consapevole che l’amore è una fenice imprendibile, ma nonostante questo lo continua a inseguire incessantemente. E nei suoi versi lo si coglie con estrema chiarezza.
Amore e rivoluzione: due termini che “ruba” con affamata passione a Majakovskij; e che non fi-nisce mai di destrutturare e chiedergli udienza.
Decisi
in quel mese di Marzo,
di un anno tumultuoso,
quando venni al mondo
ornato di calore,
di essere fedele.
Alla Rivoluzione,
all’Amore
e alla Poesia.
Un libro questo, “Il cielo prima di tutto”, che è una sorta di manifesto di libertà, amore e lotta.
Olmo Losca (prefazione)