WILMA MINOTTI CERINI L’ALBA DI UN NUOVO GIORNO – POESIA – Copertina di Mario Bracigliano Note critiche di Marco Travaglini – Mons. Franco Buzzi -Francesco Di Ciaccia

“L’alba di un nuovo giorno prova la maturità poetica di Wilma Minotti Cerini

L’alba di un nuovo giorno” è una prova importante di  maturità  poetica  per Wilma Minotti Cerini dove la forza della parola tradotta in versi  supera i confini, affronta temi del tutto intimi e personali e grandi questioni sociali e collettive. Una silloge potente che celebra il fascino della parola e dei sentimenti, invitando i lettori a mettersi in cerca delle emozioni  più  profonde e nascoste, necessarie per  illuminare  un cammino, una ricerca, un pensiero che non si accontenta di stare in superficie. La prima parte è fortemente influenzata dallo sconfinato amore per il suo compagno di vita, Livio Cerini di Castegnate. Figlio di una generazione di illuminati imprenditori, letterato , fine gastronomo  e membro dell’Accademia Italiana della Cucina, Livio Cerini è stato un personaggio famoso  in Italia e nel mondo. Nei componimenti della prima parte della raccolta il  rapporto tra l’autrice e  il suo compagno  emerge con  grande nitidezza, confermando  il celebre detto di Voltaire per  il quale “l’amore è di tutte le passioni la più forte perché attacca contemporaneamente la testa, il cuore e il corpo”.

Le passioni sono stati d’animo, percorsi intimi, a volte irrazionali. C’è il senso di una vita condivisa con Livio collezionando menù d’epoca e libri antichi di cucina ma anche molto, molto di più. Sono emozioni che colorano a tinte forti l’esistenza, orientano gran parte delle scelte, i desideri, le intenzioni. La stessa parola che le indica – passioni – proviene dal greco pathos che vuol dire sofferenza e reazione emotiva. Il pathos è forza emotiva, tempesta di sentimenti: avvolge la nostra anima e ne regola l’esistenza. La poesia di Wilma Minotti Cerini ne è colma, trabocca di sentimenti che rappresentano l’esatto contrario dell’indifferenza. Divise, ma solo in apparenza, in “blocchi a tema”, le liriche contenute ne “L’alba di un nuovo giorno” s’intrecciano con  l’attenzione agli esseri umani, alla natura, ai drammi del nostro tempo, alle memorie – anche dolorose – che riassumono il suo lessico famigliare, l’insieme dei ricordi dell’autrice. Poesie dove s’intuiscono  passioni  esaltanti e l’ebbrezza della gioia mentre dal dolore paiono svilupparsi  nostalgia, rabbia, paura e malinconia.

L’idea di  raccogliere questi componimenti in volume risponde ad  un’urgenza  non solo poetica e di condivisione con gli altri. Discende  da una ragione profonda, figlia di una sensibilità femminile capace di   attribuire maggior forza ai versi, una più lucida linearità di pensiero e sentimento, desiderosa di offrire un contributo nuovo alla costruzione di una coscienza civile e sociale, quanto mai utile e necessaria in questi tempi opachi. Del resto le passioni forti maturano spesso nella sofferenza, nel disagio, nella solitudine.  E’ la forza e la bellezza della poesia “che non è un’arte di arrangiare fiori, ma urgenza di afferrarsi a un bordo nella tempesta”, come ha scritto Erri De Luca in una mirabile sintesi nei confronti della quale è impossibile dichiararsi in disaccordo.

La poesia di Wilma risveglia la coscienza, si manifesta con innumerevoli volti, fa riflettere, è memoria, ci immerge nella realtà; fa sognare, riscalda, riempie vuoti. Una poesia, la sua, che si fa sentire .E’ la luce di un lampo dove i versi sono  stati scritti per essere sentiti. Scritti a testa alta per non perdere di vista l’orizzonte dei sogni. I suoi e i nostri sogni. In fondo cosa rappresenta la poesia se non l’attimo nel quale un’emozione ha trovato il suo pensiero e il pensiero ha trovato le parole. Come disse il grande Charlie Chaplin  “la poesia è una lettera d’amore indirizzata al mondo”. E come tale va letta e sentita.

Marco Travaglini – Scrittore 

L’ALBA DI UN NUOVO GIORNO

Ho sognato un ritorno

dove l’alba di un nuovo giorno

apre le sue cortine

su un mondo  rinnovato

nella sua innocenza.

dove l’anima prende fiato

per un cammino calmo

dove le ore hanno

senso di eterno.

Ho sognato

l’alba di un nuovo giorno

dove la vita, come una pergamena

che  srotoli,

riallaccia  fili spezzati

dove il male si volge al bene.

Qualcuno dice “ è impossibile”

tornare nel giardino dell’Eden.

Io  penso  tentare  è “ possibile”

un piccolo passo alla volta

dove  ogni cosa ha avuto inizio.

MUSA DORMIENTE

Dormire, per assurdo,

con la certezza del risveglio,

e sognare la notte stellata

al di là di nubi opache.

Travalicare confini

alla ricerca dell’amata

nascosta da cortine di veli,

per ammirare i contorni

dell’inaccessibile Dea

che s’offre a tratti

all’abbraccio rigenerante.

Misteriosa Musa

che aliti  tra respiri e sospiri

e riemergi immemore

di tempi lassi e grigi,

e germogli improvvisa

tra profumi di mammole

e laceranti dolori

con occhi velati.

Ringrazio di cuore l’amica Wilma Minotti Cerini per questo libro di poesie, nel quale ha voluto raccogliere, con semplicità, i suoi momenti di autentica ispirazione, per rendercene partecipi, svelandoci i segreti del suo mondo interiore. Wilma generosamente ci immette nella rete delle variegate tonalità affettive che riguardano non solo i suoi rapporti di famiglia, ma il mondo intero: l’indicibile bellezza della natura, il mistero insondabile del cosmo, i personaggi emblematici della storia e della mitologia, i pensatori dell’Asia e dell’India, alcuni ragguardevoli filosofi occidentali, i santi della carità, gli amici scrittori e poeti a lei vicini per affinità elettive, gli umili e gli indifesi della terra, i bimbi che giocano ignari e lieti nelle pozzanghere di fango ai margini della storia, le mamme che piangono i loro figli assurdamente uccisi, i migranti in cerca di lavoro e dignità, gli infimi schiacciati dall’arroganza del potere, gli accattoni ai quali nessuno vorrebbe badare, talvolta solitari portatori di raffinata saggezza e insondabile umanità, talaltra vittime di meccanismi alienanti e schiavizzanti. Così, con semplicità, le poesie di Wilma accarezzano valli e corsi d’acqua, boschi e colline, fiori e riflessi di luce, asciugano volti in lacrime e raccolgono sorrisi radiosi e incoraggianti, segno inequivocabile di una volontà di ripresa, in un mondo devastato da ingiustificabili guerre fratricide e vergognosi egoismi.

Questa raccolta di poesie è attraversata da una grande attenzione fenomenologica alla vita, al suo apparire, alle sue trasformazioni e alla sua fine. Alla poetessa non interessa tanto la trasformazione fisica dell’essere umano, quanto piuttosto il divenire psicologico di quell’identità che abita in ciascuno di noi e che, nel tempo, si apre alle attese di un futuro ricco di promesse, si nutre di sogni e progetti, fantasiosi o realistici che siano, raggiunge una maturità carica di buoni risultati, insieme a fallimenti e inevitabili delusioni, e si volge verso un declino progressivo, vissuto in forma vigile e pienamente consapevole di potenzialità che non vengono meno. È la parabola della vita: è la verità della nostra identità nello scorrere del tempo interiore. Qualcuno ha detto: «La verità vi farà liberi» (Gv. 8,32). Liberi anche dall’assolutizzare un momento particolare di questa parabola, che va compresa e abbracciata nella sua interezza, secondo verità. Per esprimere questo tragitto Wilma ricorre spesso alla metafora delle stagioni della vita, da lei dipinte nella policromia della loro trascolorante bellezza: qui l’universo creato si veste di umani sentimenti in divenire, mentre gli stati d’animo emotivi assumono di volta in volta i profili e i tratti dei fenomeni della natura, quando le immagini di questa si sovrappongono a quelle dei volti e viceversa.

Tuttavia il discorso poetico non si arresta al piano fenomenologico della natura sorpresa nel suo perenne divenire. La domanda sul tempo si approfondisce fino a diventare metafisica: che cos’è il tempo e quali sono i tempi del tempo? Tra gli autori di rifermento non manca l’uomo di Tagaste, Agostino d’Ippona, che ha indagato sulla natura del tempo. In realtà, passato e futuro propriamente non esistono, perché la scena, nella coscienza del tempo, è sempre dominata dal presente. Esiste infatti l’istante presente del nostro percepire la realtà con i sensi ovvero l’istante attuale della mente che intellettualmente si esercita, mentre il passato si raccoglie nel presente della memoria e il futuro si risolve nel presente dell’aspettativa. Esiste perciò solo il presente del presente, il presente del passato e il presente del futuro. Nel presente l’identico “io” prende coscienza di esistere come soggetto retratto verso il passato (nella memoria) e, al tempo stesso, proteso verso il futuro (nell’attesa): l’io è dunque un’identità distesa tra passato e futuro che si raccoglie tutta nell’istante presente. Proprio questa differenza (i momenti del tempo: passato, presente e futuro) che si compone nell’identità dell’io, rivela la natura “dialettica” e la “finitezza” dell’io. Insieme, però, nell’io finito, la consapevolezza della propria finitezza si accompagna, per contrasto, alla consapevolezza della propria differenza rispetto all’Infinito e all’Eterno, dunque rispetto a una dimensione sopra-dialettica dell’Essere, quella che indichiamo con il nome di Dio.

Questo discorso filosofico, articolato in notitia sui ipsius e notitia Dei,  potrebbe sembrare impegnativo e difficile. Invece esso è presentato sotto elegante veste poetica: anima il respiro cosmico di tutto il creato e vive nella semplice domanda che pone la creatura davanti al fondamento misterioso del proprio essere, quando, alla ricerca della propria origine, la creatura è costretta a ipotizzare un pensiero o una mente che trascenda il proprio pensiero, anzi un amore originario, integro e totale, che renda possibile il nostro amore, sempre ricco e al tempo stesso sempre povero, affetto da cronica mendicità e in cerca di un appagamento completo e definitivo. All’amore infatti compete il compito esclusivo, piacevole e difficile, mai risolto e perciò costantemente riattivato, di appianare e di armonizzare i contrasti.

Resta, infine, il tormento di una questione ancor più ardua: la presenza del male, specialmente quello morale che implica la responsabilità umana, il male che segna di sé, fino allo scempio, corpi e coscienze ferite. Gli orrori della guerra e gli insulti alla dignità della persona si radicano profondamente nella memoria del passato. Come si potrà purificare, nel presente, il ricordo che alimenta l’odio e la volontà di vendetta, per lo più solo sospesa e rinviata al futuro? Non è facile l’oblio. Come si potrà rigenerare la memoria delle origini pure, detergendone l’attuale bruttura del male? Qui nasce la contemplazione amorosa dell’Uomo della Croce e l’anelito a una redenzione dell’umanità che solo da un Dio adorabile, fatto uomo e crocifisso, può sperare una soluzione. L’affidamento, senza condizioni, a colui che ha preso su di sé il male del mondo suona qui come la parola orientativa suggerita dalla poetessa a un’umanità tribolata e alla ricerca di se stessa.

Invito perciò cordialmente tutti i lettori a immergersi con grande tranquillità d’animo in questa consistente raccolta di poesie di Wilma Minotti Cerini. In esse possiamo incontrare non soltanto gli intimi sentimenti della poetessa, ma anche molta parte di noi stessi, nel tendere insieme a quelle verità che hanno il potere di liberarci dai nostri mali.

Con queste mie parole, onorato di poter accompagnare la pregevole e ricchissima collana poetica di Wilma, intendo esprimere anche un grazie sentito all’amica che, nel ricordo indelebile del suo caro marito, il visconte Livio Minotti Cerini, ha voluto omaggiare la Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana di molti pregevoli doni, durante gli anni della mia prefettura e oggi ancora.

                                                                                          Mons. Franco Buzzi

XXV Prefetto (2007-2017)

                                                                                                della Veneranda Biblioteca Ambrosiana

                                                                                                                Collegio dei Dottori

Milano, 15. 12. 2019

prof. scrittore  e filosofo

Francesco Di Ciaccia

Il dramma e la possibilità dell’impossibile

Le riflessioni preliminari dell’Autrice alla sua raccolta di poesie suonano come un grido di dolore e quasi come un grido di allarme per la condizione dell’umanità contemporanea. Sembra assurdo. Ma il fatto è questo: oggi, in un punto della storia segnato da tanti indici di progresso civile, l’umanità si trova a rivivere un dramma che è antico e che ora è sconvolgente nel panorama, appunto, di progresso in tanti ambiti. È il dramma della schiavitù. La condizione, diffusa, di schiavitù mette in crisi, sottolinea l’Autrice, la civiltà occidentale, proprio quella che aveva superato la sciagurata condizione della schiavitù antica.

Si contrappone al dramma attuale la prospettazione che si trova già nella prima poesia della raccolta. Questa poesia (Musa dormiente) è indirizzata alla Musa ma sottende una visione ulteriore, proiettata nella utopia: “la certezza del risveglio”, il “sogno” di una “notte stellata / al di là di nubi opache”. La nebbia che offusca lo sguardo e che deprime la storia dell’uomo ha un “di là” in cui i confini sono travalicati, come si esprime la lirica connotando tuttavia sempre la Musa.

Il “di là” – storico, etico, esistenziale – è “il giardino dell’Eden”. Lo afferma la seconda lirica della raccolta, L’alba di un nuovo giorno, che dà il titolo a tutto il libro. C’è chi dice che quel giardino “è impossibile”. Ecco dunque la natura dell’utopia: la possibilità dell’impossibile. La possibilità può arrivare ad affermarsi, se noi procediamo secondo un criterio preciso. Secondo l’Autrice, il criterio idoneo è quello di fare “un piccolo passo” per volta. Si procede nel quotidiano, operando giorno per giorno, in ogni momento, in ogni occasione, in modo che “il male si volg[a] al bene”. Anche un “sorriso” (si veda Io ero lì) può cambiare uno spazio della terra, uno spazio dell’animo; anche un “grazie” (si veda Uno sguardo dal nulla) può portare il “mondo rinnovato” verso la “sua innocenza”.

Wilma Minotti Cerini ha scelto di porre all’inizio della raccolta la silloge dedicata al suo amato Livio, il coniuge che, nell’oggi, vive nel cuore – che è anche memoria – della sposa, ora fatta di “nostalgia” solitaria – e di lontananza annullata nel ricordo (Arcobaleno negli occhi).

Il contesto della corposa silloge, Amore e amare, è intimistico, di un amore che è anche amorevolezza, in cui le pennellate cromatiche – nelle quali si impongono prepotentemente le calde braccia, amorosamente proteggenti – sono di una delicatezza e di una profondità da vertigine. Le inflessioni emotive e le finezze lessicali sono certamente da gustare, ma io qui voglio cogliere un vissuto che collego con il pensiero che ha aperto il libro intero.

Il vissuto, nell’ambito già detto della vita personale a due, è quello del decadimento fisico e poi della fine dell’esistenza terrena dell’amato. La “falce” che “miete la vita” (L’amore si nutre dell’amore) e che “pareggia l’erba”, direbbe il Manzoni, non è la parola definitiva; il distacco che “strappa il cuore” non è il definitivo. Il definitivo è “quell’oltre” “dove tu ora vivi”, è il bene nel quale si converte il male, che in questa contingenza è la morte. Ma, appunto, la morte dell’amato, quella morte che produce “lacrime” che “vanno verso il fiume / di tutte le lacrime del mondo”, la morte, dicevo, e il fiume delle lacrime umane hanno uno sbocco, uno solo: il “grande mare dell’eternità”, ha scritto l’Autrice il 14 aprile 2013. Un giorno preciso. In quel giorno preciso si è aperto il per sempre.

Poco prima, forse, l’Autrice aveva scritto, confessando: “Sappiamo chi siamo” e “senza effimeri pensieri / volgiamo lo sguardo lassù” (Io sono qui). Un lassù che è anche un quaggiù, un quaggiù profondo: l’intimo di sé.

È nell’intimo di sé che è il cielo, e vive “l’oltre”. E nell’intimo di sé sono tutti coloro che ci hanno preceduto, e ci succederanno.

Ecco dunque l’utopia anche nel nostro quotidiano umano: essere in vita, nonostante il morire.

Sul tema cui si accennava all’inizio si collocano esplicitamente due liriche dell’Autrice sempre riferite al suo Livio. Wilma Minotti Cerini lamenta “un’umanità ferita, umiliata”: quell’umanità che chiede lavoro e lavoro non ha (Non so). Ne I tempi della collera il dramma si fa esplicita tematica. Esso va dal “volto di lacrime di un bambino schiavo”, dalla “giovane donna corrotta dal velo obbligato” – anche questa una forma di schiavitù, terribile e lacerante – alla deforestazione.

Anche qui la possibilità dell’impossibile si fa strada. In questo modo: iniziando a convertire la collera in “protesta tranquilla”, “propositiva”. E l’utopia trapassa in certezza: “salveremo il mondo”. Tutti insieme, e noi, l’uno dietro l’altro, seguiremo la “bandiera” della giustizia.

A questo punto io vado alla silloge che ha per oggetto specifico quel dramma cui si accennava all’inizio e che ha il titolo emblematico di Guerre Tsunami Carestie ꞊ migrazioni.

Il panorama è tragico. Io scelgo solo un quadretto: “bambini / dallo sguardo di pietà”, in un mondo sulle cui “vie” “corrono brevi vite”. E per chi sa che il papà di Wilma fu ucciso, a freddo, lasciandola orfana  sua figlia, il quadro è una icona. Che fa accapponare la pelle.

Le poesie della silloge percorrono tragici episodi realmente accaduti, e realmente strazianti, di guerre, di morti, di bimbi strappati all’infanzia, di sguardi terrificati, di annegamenti. Ma forse il dramma non sta in un brano di storia; forse esso si svela in infausti ritorni epocali. Forse esso è intrinseco alla storia, è intrinseco all’umanità, perché è l’uomo in se stesso ad essere “homo homini lupus”, ad essere il flagello dell’uomo. Forse l’uomo è condannato a farsi macellaio del prossimo.

Forse, necesse est. Forse non c’è scampo.

Ma in questa necessità, per l’uomo, di essere nemico dell’uomo, facitore dei patimenti del prossimo, si staglia, limpido, chiaro, genuino, un segno di contraddizione: il “puro” che “porta la Croce” (Umanità ferita). Alla sua luce, limpida, chiara, genuina, s’incamminano uomini e donne in-arrese alla prospettiva lupesca, all’umana natura impietosa, all’amore di morte.

Qui, ancora, la possibilità dell’impossibile: spezzare la catena della necessità, ribaltare il dramma necessitato.

Questa prospettazione utopica richiama la dimensione metafisica. Richiama Dio. Ed è proprio questa dimensione la realtà nascosta. “Tu sei celato”. E sei celato, perché noi abbiamo a cercarti? O sei celato, perché siamo noi a celarti, per non correre il rischio di trovarti? – si domanda l’Autrice in Dubbi, della silloge Dubbi e rimpianti.

La mente poetica non dirime il dilemma. I dubbi non sono risolti. La mente poetica vede la risposta alle domande mediante il vissuto. Vede il Tu celato sul Golgota – il cui cammino è “ben difficile” -, dove “il Cristo rinnova [le anime] mirabilmente integre” (Beato don Carlo Gnocchi, della silloge Dediche). Per comprendere – anzi no: per vivere – il Dio nascosto occorre guardare verso chi ha superato il dubbio amando.

Allora lo sguardo che ha seguito il cammino nel “cielo sopra di noi” di un uomo crocifisso sul Golgota – o martirizzato in ogni angolo della terra -, può volgere gli occhi su ogni umano che soffre, che piange, che pena, che muore (Guardo i tuoi occhi) – o martirizzato in ogni angolo della terra, poiché ciò che si fa ad uno tra i più piccoli fra gli uomini lo si fa a Cristo in persona, a Gesù vivo e presente.

In questo registro di tragedie umane le poesie di Wilma Minotti Cerini sono numerose. Qui però io proseguo sul tema dell’“oltre”, tra metafisica e utopia. Utile al riguardo è la silloge Invocazione. Il primo dato oggettivo è individuabile in quella che è la causa del male universale – tra ingiustizie, guerre, annegamenti, schiavitù, diffusa e variegata -: noi stessi. Possiamo dire: il nostro peccato. Ma il peccato in che consiste? Consiste nel dimenticarci – da qui, “l’essere ingrati” (Signore perdona) – di Colui che è e dà il bene. Il bene è l’alternativa di contraddizione del male. In pratica, è la condizione perché l’impossibile sia possibile. La sostanza del discorso metafisico – “E sei solo Tu ad esistere” (Signore perdona) – e storico è questa.

Ora vediamo come si configuri sul piano esistenziale questo “Tu”. In altre opere Wilma Minotti Cerini lo ha precisato insistentemente, con nome preciso. (In questa raccolta lo trovo indicato per riflesso). La sua caratteristica comunque lo rivela. Egli è la spalla, cioè il sostegno: è colui sulla cui “spalla” ci sostiene (Oggi). La spalla del Padre.

Ma che cosa comporta, questa spalla? Che cosa vuol dire, che essa sostiene?

Bello è, io credo, quello che Wilma Minotti Cerini dice di sentire: “Non so se il mio andare / Mi porta verso il burrone / O se cammino verso l’ovile” (Oggi). Che cos’è questo sentire? È il sentire che manca della presunzione – ho espresso una definizione, non volevo, m’è sfuggita – della fede – così alcuni pensano– di camminare sulla strada giusta, di stare a posto. Di stare a posto, non solo con se stessi, ma con Dio. Persino. Noi siamo felici, per loro, per quelli che vivono questa sicurezza. Noi stiamo con coloro che, di sé, non hanno questa sicurezza – o, anche solo, fiducia -, poiché “Ogni direzione mi è nascosta” (Oggi). Non siamo sicuri neppure di non essere sicuri di qualcosa: siamo “in una nebbia fitta” (Oggi). Di una sola cosa siamo sicuri. Siamo sicuri di una cosa sola. E solo di una cosa: che “Tu sei l’unico bene” (Oggi).

Ora, dato che Tu solo, e solo Tu, sei buono – l’ha detto Gesù -, nessuno, e proprio nessun altro, è buono. Neppure chi cammina sulla via di ciò che è bene, neppure chi cammina sulla via di ciò che è giusto, chi cammina – o crede di camminare – nella via di ciò che è santo.

E qui non posso non riandare ad un frate, frate Francesco. Ne ho già scritto. E ne scriverò finché avrò fiato. In fin di vita, frate Francesco, alla Porziuncola, steso in terra a una spanna da sorella morte e rosicchiato dai fratelli topi, dettò e cantò, pieno di gioia, la lassa sulla morte del già iniziato Cantico di frate Sole. Frate Elia, suo superiore, lo esorta a smettere di cantare giulivo e lieto; si disponga, invece, a piagnucolare, perché la gente si sarebbe edificata alle implorazioni di perdono, alle sue proteste di uomo peccatore, mentre a sentirlo esilarato cantautore si sarebbe scandalizzata. Il morituro contestò – un po’ seccato, per il vero – e in sostanza gli disse di sentirsi tranquillissimo.

Appunto: ma perché? Proprio perché – diciamo noi, sulla scorta delle fonti – era vissuto esclusivamente dentro l’idea fissa – e fissa per davvero – che “Tu sei l’unico bene”. E che lui, frate Francesco, non era alcunché.

Possibile? Mi piace riassumere questa meditazione dell’Autrice – che ho ripercorsa, qui, affannosamente e miseramente – con una ulteriore osservazione. Noi sì, è vero, una cosa buona, almeno una, noi possiamo farla: la “preghiera”.

Ma “Non c’è nulla / anche nella preghiera a Te / che non provenga da Te” (Tutto da Te è creato).

Questo è bello. Anzi bellissimo. Una ascensione, una semplice, una istantanea, una umilissima, una ascensione quasi impercettibile verso il suo volto, il volto del Padre – ma non è soltanto Padre, lo vedremo tra pochissimo -, anche quella attraverso la Madre Maria (Maria Madre del Figlio del Padre), non viene da noi.

Questo è bello. Anzi bellissimo. Perché è vero. Non ci assegniamo neppure un attimo di spirazione. Anche la spirazione è ispirata. Da Dio creata. Anche una paroletta breve e semplicissima: Abbà, Padre.

Dio, il “Tu” dell’io, del noi, è padre. S’è detto. Ma l’abbandono col quale a Lui ci si affida “totalmente” (Signore perdona), l’abbandono nel quale “l’anima trova respiro”, l’abbandono dove si sperimenta la “beatitudine”, è “tanto simile / alle braccia di una madre”.

Il Padre è anche materna tenerezza.

E allora siamo felici di non poter fare altro che “affidarci”.