Silvana Marconi “SOPRAVVISSUTA” EDIZIONI IL FOGLIO LETTERARIO

Traduzione dallo spagnolo di Frank Iodice, con nota critica si Marta Occhipinti Giornalista de La Repubblica

Sopravvissuta, di Silvana Marconi, Edizioni Il Foglio 2022, con un’introduzione di Marta Occhipinti, giornalista de La Repubblica. Un testo di un grande impatto emotivo. Incontriamo l’autrice in diretta Facebook, insieme all’editore e al traduttore. Sarà fornita una traduzione simultanea dallo spagnolo.

Silvana Marconi è nata a Montevideo, l’otto dicembre del 1977. Insegna inglese, è sposata, e ha due figli adolescenti. Collabora con Pra Publishing, casa editrice statunitense, e altre realtà editoriali. Per oltre un anno è stata vittima di violenza domestica, fino al giorno in cui ha deciso di denunciare il suo aggressore e di scrivere questo toccante resoconto. Seguendo il suo esempio, tante donne uruguaiane hanno fatto questa scelta coraggiosa e oggi la considerano un punto di riferimento. Seguitissima sui social network, è ospite fissa in vari programmi televisivi e radiofonici. Un documentario sulla violenza di genere, da lei co-diretto, con testimonianze reali, è in corso di registrazione e sarà prodotto col patrocinio dell’Istituto Italiano di Cultura di Montevideo.

La violenza di genere è un problema sociale che non riguarda solo le donne. È questo il punto di partenza, imprescindibile, per qualsiasi analisi o prospettiva politica sulla tutela delle vittime di violenza. 

Tante pagine giudiziarie e altrettante storie di vita sono state dimenticate, forse anche per volontà di quella platea femminile, zittita dalle sue stesse paure. Vittime di violenza. Una doppia violenza: quella di amanti e mariti molesti e quella inflitta da una società normata su una cultura maschilista e patriarcale.

Nel 2021, in Italia, ogni giorno 89 donne sono state vittime di violenza, secondo l’ultimo report della Direzione centrale anticrimine della Polizia di Stato. Nel 36 per cento dei casi, a compiere violenze e femminicidi sono mariti e conviventi. Dato più significativo è l’aumento nell’ultimo anno dei casi di morte “per futili motivi”: sono 63 le donne uccise dal marito o dal proprio partner. Nomi che riempiono elenchi aggiornati di anno in anno come registri alfabetici dei morti, commemorati nella loro giornata, il 25 novembre. 

È evidente che non basta un tacco rosso in piazza. È evidente che non bastano i finanziamenti, pochi e a macchia di leopardo, ai centri antiviolenza e di ascolto. Contro la violenza sulle donne c’è bisogno di una rivoluzione civile pari a quella contro la mafia negli anni Novanta. C’è bisogno di un cambio di prospettiva, a iniziare da quella società asimmetrica nel potere tra uomo e donna, ancora più grave, perché ancora più nascosta. 

Per troppo tempo abbiamo continuato a pensare, come spesso citano le sentenze, che un atto violento sia frutto di raptus o tempeste emotive. Non è così. L’atto violento ha una precisa gestazione che si alimenta dentro una relazione basata sulla disparità di potere: è un fattore culturale radicato, che viene fuori, come una escalation, quando la donna prova a sottrarsi al dominio. Non esserne consapevoli porta alla rassegnazione o all’adattamento con comportamenti non sufficientemente adeguati dentro una lotta di genere tra prede e predatori. È sulla cultura del dominio che bisogna sradicare le radici della violenza: perché se nulla è cambiato con l’aumento della condanna morale e mediatica alla violenza di genere, sdoganata attraverso social media e manifestazioni troppo spesso solo unicamente femministe, significa che c’è qualcosa di più profondo, qualcosa che non ha funzionato finora e non continua a funzionare. Condannare non basta, ma denunciare è un buon punto di partenza. È il primo passo verso la consapevolezza del sé, del proprio corpo. E allora del noi, rispetto all’altro che ha il dovere reciproco del rispetto. 

Sono ancora poche le testimoni, troppe le vittime: una donna su sette in Italia denuncia colui che spesso si trasforma nel proprio assassino, mentre il 65 per cento delle donne vittime di violenza non parla con nessuno di stalking, schiaffi e calci subiti. L’ossatura sociale è basata in primis sulla famiglia, nucleo da difendere a tutti i costi anche davanti a violenze evidenti, che spesso si tramandano alle nuove generazioni. Non è un caso che il 23 per cento delle donne che hanno deciso di non denunciare il proprio partner adduca la paura per le conseguenze che si possono sviluppare all’interno del contesto familiare. 

Resta, allora, il coraggio. La scelta di una libertà pari al valore della propria vita. Resta la forza di andare controcorrente, come Silvana, che ha attraversato come fossero strade obbligate le sue «cicatrici della bestialità umana» e ne ha fatto ordito e trama per ricucire i pezzi della sua storia. Quella nuova storia, che molte donne devono imparare ancora a desiderare. 

Memorie di sopravvissute non ce ne saranno mai abbastanza. Ma la violenza sulle donne è un affare collettivo e non privato. Ecco a cosa serve l’unicità di una storia di violenza denunciata: farsi diario in pubblico per un cambiamento necessario dove le donne sono persone e non oggetti da possedere, condottiere delle loro esistenze e non schiave delle loro passioni.

 Marta Occhipinti Giornalista de La Repubblica

Quando ho iniziato a tradurre il libro di Silvana, temevo che fosse uno dei tanti resoconti su cui i giornali amano speculare. Una testimonianza che servisse più come liberazione che come esortazione ad elevare la propria vita, come succede con la bella letteratura. Ammetto di aver aperto la prima pagina col timore che un racconto di esordio, di qualunque genere si trattasse, fosse inesatto, impreciso, non efficace. A mano a mano che andavo avanti, mi prefiggevo di renderlo più incisivo, sostituivo i punti e virgola con i punti, riscrivevo o eliminavo espressioni un po’ stereotipate. Ma a un certo punto, mi sono reso conto che ogni parola doveva rimanere esattamente lì dov’era, perché solo così sarebbe arrivata alla coscienza di chi avrebbe letto. Ho capito il senso della frase scritta nei ringraziamenti, “ogni parola mi ha fatto molto male”. E ho deciso di lasciare intatto il respiro originale, limitandomi a mettere in risalto immagini molto belle, e molto forti. Si trattava di una narrazione esplosa, e come tale andava consegnata anche in italiano. La sua forza dal punto di vista narrativo stava nella sua spontaneità.

Leggendo mi ripetevo: è un vademecum, è molto breve, ma di un impatto emotivo incredibile. In poche pagine c’era tutto. Tutte le fasi della costruzione della violenza. Dapprima la dominazione, poi la coercizione, l’umiliazione (“I tuoi non ti vogliono”, “Sei ingrassata da far schifo”, “Sono io a sfamarti”) poi l’isolamento, e infine le percosse. Tutto il peso di un ricatto sociale e familiare (“Tuo marito e tua suocera hanno i soldi”, “La decisione della madre di Cesar di assumere dei muratori, tra i quali, mio padre”). L’abbandono delle altre donne che le hanno voltato le spalle (“Questi lividi non sono freschi”). Una confabulazione tanto casuale quanto diabolica. E infine la forza di una donna che non si è arresa ed è riuscita a trovare una salvezza nonostante la “reiterazione dell’indifferenza”.

Questo piccolo libretto è una specie di miracolo, per il semplice fatto che avrebbe potuto non esistere. È costruzione della consapevolezza, ricerca coraggiosa della verità, scoperta di un’ostinazione che nessuno di noi sa di avere. Fino all’esplosione: un nome. Utilizzando il vero nome del suo aggressore, Silvana ha trasformato un’opera letteraria, già fedele a fatti reali, in una guida alla sopravvivenza. Perché se è vero che da un lato esiste un intero filone della narrativa a vocazione femminile, e dall’altro esiste la cronaca – in cui comunque si tende a omettere le identità – sono convinto che molte vittime di violenza di genere abbiano bisogno di leggere storie come questa per trovare il coraggio di denunciare i propri aggressori e fare pubblicamente il loro nome e cognome.

Frank Iodice