Silvana Marconi “SOPRAVVISSUTA” Ed. il Foglio Letterario.

Titolo originale: Sobreviví Traduzione di Frank Iodice

PREFAZIONE

La violenza di genere è un problema sociale che non riguarda solo le donne. È questo il punto di partenza, imprescindibile, per qualsiasi analisi o prospettiva politica sulla tutela delle vittime di violenza.

Tante pagine giudiziarie e altrettante storie di vita sono state dimenticate, forse anche per volontà di quella platea femminile, zittita dalle sue stesse paure. Vittime di violenza. Una doppia violenza: quella di amanti e mariti molesti e quella inflitta da una società normata su una cultura maschilista e patriarcale.

Nel 2021, in Italia, ogni giorno 89 donne sono state vittime di violenza, secondo l’ultimo report della Direzione centrale anticrimine della Polizia di Stato. Nel 36 per cento dei casi, a compiere violenze e femminicidi sono mariti e conviventi. Dato più significativo è l’aumento nell’ultimo anno dei casi di morte “per futili motivi”: sono 63 le donne uccise dal marito o dal proprio partner. Nomi che riempiono elenchi aggiornati di anno in anno come registri alfabetici dei morti, commemorati nella loro giornata, il 25 novembre.

È evidente che non basta un tacco rosso in piazza. È evidente che non bastano i finanziamenti, pochi e  macchia di leopardo, ai centri antiviolenza e di ascolto. Contro la violenza sulle donne c’è bisogno di una rivoluzione civile pari a quella contro la mafia negli anni Novanta. C’è bisogno di un cambio di prospettiva, a iniziare da quella società asimmetrica nel potere tra uomo e donna, ancora più grave, perché ancora più nascosta.

Per troppo tempo abbiamo continuato a pensare, come spesso citano le sentenze, che un atto violento sia frutto di raptus o tempeste emotive. Non è così. L’atto violento ha una precisa gestazione che si alimenta dentro una relazione basata sulla disparità di potere: è un fattore culturale radicato, che viene fuori, come una escalation, quando la donna prova a sottrarsi al dominio. Non esserne consapevoli porta alla rassegnazione o all’adattamento con comportamenti non sufficientemente adeguati dentro una lotta di genere tra prede e predatori. È sulla cultura del dominio che bisogna sradicare le radici della violenza: perché se nulla è cambiato con l’aumento della condanna morale e mediatica alla violenza di genere, sdoganata attraverso social media e manifestazioni troppo spesso solo unicamente femministe, significa che c’è qualcosa di più profondo, qualcosa che non ha funzionato finora e non continua a funzionare. Condannare non basta, ma denunciare è un buon punto di partenza. È il primo passo verso la consapevolezza del sé, del proprio corpo. E allora del noi, rispetto all’altro che ha il dovere reciproco del rispetto.

Sono ancora poche le testimoni, troppe le vittime: una donna su sette in Italia denuncia colui che spesso si trasforma nel proprio assassino, mentre il 65 per cento delle donne vittime di violenza non parla con nessuno di stalking, schiaffi e calci subiti. L’ossatura sociale è basata in primis sulla famiglia, nucleo da difendere a tutti i costi anche davanti a violenze evidenti, che spesso si tramandano alle nuove generazioni. Non è un caso che il 23 per cento delle donne che hanno deciso di non denunciare il proprio partner adduca la paura per le conseguenze che si possono sviluppare all’interno del contesto familiare.

Resta, allora, il coraggio. La scelta di una libertà pari al valore della propria vita. Resta la forza di andare controcorrente, come Sílvana, che ha attraversato come fossero strade obbligate le sue «cicatrici della bestialità umana» e ne ha fatto ordito e trama per ricucire i pezzi della sua storia. Quella nuova storia, che molte donne devono imparare ancora a desiderare.

Memorie di sopravvissute non ce ne saranno mai abbastanza. Ma la violenza sulle donne è un affare collettivo e non privato. Ecco a cosa serve l’unicità di una storia di violenza denunciata: farsi diario in pubblico per un cambiamento necessario dove le donne sono persone e non oggetti da possedere, condottiere delle loro esistenze e non schiave delle loro passioni.