Storia (vera) di un sub ucciso da uno squalo e dei tentativi (falliti) di ucciderlo ancora.
Nel 1989 ero uno dei redattori del quotidiano “Il Tirreno” e, insieme con gli altri colleghi della redazione piombinese, seguii ogni evoluzione di questa storia che sembrava impossibile: un sub ucciso da uno squalo. E non fu semplice, soprattutto quando ci fu da fronteggiare l’ondata di menzogne con la quale altri colleghi tentarono di alimentare una verità alternativa. Di fatto tentarono di uccidere due volte quel sub: dopo quelli dello squalo, i denti ancora più aguzzi della menzogna.
Il libro, edito da Edizioni Il Foglio, sarà disponibile in primavera.
Estratto dall’introduzione del libro “L’uomo e il mare”
Morte e terrore emersero dal mare appena increspato e tiepido di un insolito inverno che sembrava maggio. Morte e terrore: le fauci di uno squalo in un attimo si presero la vita di un sub di 47 anni, Luciano Costanzo, e fecero precipitare Piombino, l’Arcipelago e mezza costa toscana in un film dove tutti erano attori e spettatori. Solo che non era un set cinematografico: in quella mattinata del 2 febbraio del 1989 tutto quanto era drammaticamente e spaventosamente vero. Era la realtà che aveva sorpassato in curva fantasie ardite e timori ancestrali. E purtroppo non era che l’inizio di una storia assurda e interminabile, con la vittima di quella morte atroce trasformata in un bersaglio per le menzogne più infamanti. La straordinarietà di quegli accadimenti veniva presa a pretesto per metterli pesantemente in dubbio, per costruire una narrazione tossica, devastante, infamante.
In quello scenario, infatti, non c’era solo l’uomo e non c’era solo il mare dove aveva trovato la morte. C’erano altri uomini ben più feroci di quello squalo che cercavano di ucciderlo una seconda volta attribuendogli una fuga per incassare una polizza o una battuta di pesca con gli esplosivi finita male. Era la malafede che cercava di prendere il posto di una verità che da sola faceva già tanta paura. I giorni del lutto e del terrore si intrecciarono così con quelli di una caccia allo squalo che, più che altro, era una caccia alle paure. Quel bestione da tirare fuori dal mare non era una vendetta, era in realtà il modo migliore per far emergere dagli anfratti più intimi dell’animo paure e ansie che altrimenti rischiavano di diventare eterne. Pur sapendo che di squali ne sarebbero rimasti altri, catturare proprio “quello” sarebbe stato l’unico modo per placare le ansie.
Purtroppo furono scritte fin troppe pagine di pessimo giornalismo, successivamente rese meno ignobili dalle querele trasformate in condanne. Ma in prima battuta, contro quell’ondata di melma mediatica fu decisiva l’energica contrapposizione di cronache di qualità e onesta ricerca della verità. E al tempo stesso animate dal rispetto per familiari e amici di quel sub di 47 anni, padre di due figli che non sapevi neanche come guardarli negli occhi. Il ragazzo aveva visto il padre morire nel modo più atroce, la sorella si rifugiava fra le braccia del marito e guardava un punto indefinito nelle acque davanti alle banchine, quasi come a sperare che potesse restituirgli il padre perduto. E poi c’erano i tanti amici di Costanzo. E con loro l’ingegnere che era sulla barca e si era visto portare via l’amico-compagno di avventura nelle ispezioni ai cavi sottomarini dell’Enel.
Sono facce che ricordo ancora in modo netto, nitido. Perché come quelle non ne avevo mai viste prima e dopo non ce ne sono state altre. Erano diverse da quelle di qualsiasi dolore: l’incredulità veniva prima della disperazione, lo shock precedeva il lutto e le due cose si fondevano in modo apparentemente illogico. Sembrava un film e tutti eravamo attori di una realtà che andava oltre la logica. Quella storia sembrava uscita dalla penna di uno scrittore di thriller. Cominciammo a ricostruirla e per giorni vivemmo immersi in un gigantesco set dove si filmava la realtà. Ogni risveglio a Piombino era come nel film “Il giorno della marmotta”, dove si ricominciava sempre da capo, con la stessa narrazione. E che la data che si ripete nel film americano sia proprio quella del 2 febbraio assume interpretazioni che vanno oltre la casualità. L’industria della disinformatija era molto efficiente anche se un po’ cialtrona. Non era – e per fortuna verrebbe da dire – epoca di social e di siti internet disinvolti, altrimenti sai che tempesta di post fetidi pieni di menzogne ma pronti a far presa sulla massa dei creduloni?
In questo libro non racconto solo una grande storia di cronaca, praticamente unica nel suo genere. Racconto la trasformazione radicale del rapporto collettivo con il mare e non solo con quello. È la storia di un modo di vivere cambiato, vinto dalle paure e dalla diffidenza e attaccato nell’orgoglio di cittadini perbene da una campagna di menzogne che andava oltre la storia in sé e il rispetto per la vittima. Era un gigantesco festival degli interessi che veniva messo in scena con una danza violenta sulla pelle e sull’animo di chi questa storia la stava soffrendo.
Questo di fatto è un romanzo, per il suo sviluppo e per il pathos che esprime. Ma nel leggerlo bisogna sempre aver presente che nulla è stato lasciato alla sceneggiatura più comoda. Oggi, 35 anni dopo, rimettere in fila quei fatti può essere d’aiuto anche per affrontare vicende meno “enormi” di queste e per rivalutare l’importanza di poter contare sull’onestà di chi va a vedere, racconta, analizza, fa le domande giuste. Un testimone della verità come lo sono stati tutti quei colleghi che animavano e nobilitavano la redazione piombinese del quotidiano “Il Tirreno”. Era possibile allora e mi piace pensare che possa esserlo ancora oggi.